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Non c’è due senza tre è un modo di dire tra i più diffusi. Non sempre è valido e per il ristorante  “La nuova rampa”, situato sul viale che da Pisa porta a Marina proprio sulla rotonda per dirigersi verso San Piero a Grado, si è trasformato in “dopo tre qua ci torni te” (non mi veniva niente di meglio).

Già, perché, con cinque amici fidati, lo scorso martedì (3 gennaio), abbiamo calato il tris, nel senso che, per la terza volta nel giro di un annetto e mezzo, siamo tornati a mangiare là.  E non ci torneremo più.

A ‘sto punto uno si può chiedere? “Ma come mai ci siete andati ben TRE volte allora?” Beh, le prime due non eravamo stati male, avevamo mangiato tanto e speso poco, con un rapporto qualità/prezzo davvero ottimo.

Per chi non conoscesse “La nuova rampa” (noi dovevamo aver mangiato a quella vecchia i primi due raduni), si tratta di una delle classiche “bettole” dove le dosi sono inversamente proporzionali al prezzo. Mangi come un Giuliano Ferrara ma spendi come un Fassino. Prevalentemente si mangia pesce. La qualità non è (era) eccelsa, ma neanche così disdicevole. Il posto è quel che è (era). Apparecchiatura spartana, arredamento idem, bagno (ci torneremo) pure. Antipasto, primo, secondo, dolce, ponce, 25 euro. Se non prenoti non trovi (trovavi?) posto.

Ma veniamo al fatidico 3 gennaio 2011, il giorno in cui “La nuova rampa” scomparve per sempre dal radar dei Sublimati (sì, il gruppo di sei amici di cui fa parte il sottoscritto ama definirsi così).

Al di là di un errore di cognome nel foglietto di prenotazione (un fantastico post-it giallo appiccicato alla tovaglia con su scritto a penna “Rizzi”), un momento quasi ilare, dopo, da ridere (o forse sì dai, la situazione era quasi comica) c’è stato ben poco.

Costretti in un tavolino da sei in angolo, accanto ad una credenza/armadio stipata di bottiglie di amari e bicchieri dalla pulizia sospetta proveniente da qualche rimanenza della scenografia del Dottor Zivago (per dire di quanto era nuova), circondati da Babbi Natale renne e slitte appesi al soffitto, oppressi da tende giallastre che, una volta scostate, rivelano un vetro con su appiccicate (esternamente, se Dio vuole) foglie secche e ragnatele, aspettiamo l’arrivo del cameriere per la declamazione del menu (quello cartaceo non esiste, ma in posti così ci può stare). Scegliamo le stesse portate delle due precedenti cene: come antipasto pepata di cozze e terrina di mare caldo, come primi spaghetti allo scoglio e linguine all’astice. Uno di noi che non ama il pesce si butta su  un misto terra come entrée e dei tagliolini ai funghi. Conoscendo le dosi, decidiamo di valutare l’opportunità di un secondo (frittura o grigliata) al termine dei primi piatti. Da bere, del vino bianco fermo.

Arrivano le cozze. Buone, non troppo pepate in realtà, ma si fanno apprezzare. Arriva anche l’antipasto misto di terra per l’unico disertore del pesce. Una piattata enorme di salame, crudo, pancetta con una (UNA) fetta di formaggio (pecorino?) schiaffata in mezzo a quel tripudio di affettati. Se era misto, chi lo ha mangiato non deve essersene accorto. Mentre il carnivoro è intento a sbrogliare la matassa di fette, le cozze sono finite e arriva la terrina di mare caldo.  Un’ammucchiata di polipi, totanini e affini immersa in un mare di sedano e insalata. Ma soprattutto, la portata più insipida del mondo. Il tocco di classe è costituito da un filo (o peggio, un capello, chi lo sa) che affiora nel piatto di “Rizzi”, il quale (saggiamente) decide di farla finita col mare caldo. Ah, dimenticavo l’assaggio della bevanda. Il vino bianco fermo. Bianco di nome e di fatto. Anzi, trasparente. Come la pipì di un bambino.

Bilancio dopo gli antipasti:

pepata di cozze 6,5     mare caldo  4     misto terra    6 (gli affettati non erano male)

In attesa dei secondi, un paio di noi si recano in bagno. Ok che il 31 dicembre è passato da soli 4 giorni e che magari qualcuno ha brindato pure lì dentro, ma che ci fa un tappo di spumante (sì, avete letto bene) al posto del tasto dello sciacquone?

Ah, ma a guardare bene (che sbadati) c’è pure un cartello con tanto di istruzioni: “Premere qua per tirare!”, con tanto di freccia, schemino e disegno del tappo (riportato molto fedelmente). Per chi non avesse capito, per tirare l’acqua bisogna premere questo tappo-sciacquone. Per cagate alle bollicine, insomma.

Giungono i primi piatti. Partiamo dal meglio: i tagliolini ai funghi del carnivoro.  Immersi in un catino di panna (ma serviti in un piatto molto chic, probabilmente rimasto per caso in fondo alla credenza/armadio che continua a incombere sulle nostre teste), coi funghi quasi invisibili, all’aspetto ricordano molto, ma molto molto da vicino l’analoga portata dei “Quattro salti in padella” della Findus. Anche al gusto, pare (non sono io il carnivoro, che se vuole può chiarire nei commenti). E questo è il meglio. Vi lascio immaginare il resto. Per fare un sunto, gli spaghetti allo scoglio sono in realtà dei capellini (la pasta lunga più fine che c’è) totalmente privi di qualsiasi reminiscenza che dico di mare (magari!) ma di sapore. Le linguine all’astice sono un intingolo di panna e pomodoro nel quale, probabilmente perché di passaggio per caso in cucina, è stato gettato dentro un astice.

Bilancio dopo i secondi:

tagliolini ai funghi 5,5     spaghetti allo scoglio 3    linguine all’astice 2,5

Rattristati, sconsolati, mesti, ma almeno forti del fatto che se ci prendeva uno strizzone ci saremmo potuti beare del pulsante-sciacquone più kitsch del mondo, ci rifiutiamo di proseguire coi secondi e passiamo diretti ai dolci, cercando conforto almeno lì. Da una sfilza lunghissima, scegliamo in tre la torta del nonno (mentre altri tre disertano e si incantano nel profluvio di addobbi che penzola generoso dal soffitto). Un mattone sarebbe stato meno indigesto, ma il sapore è buono e si sente che è un dolce fatto in casa, quindi genuino. Beviamo rapidamente il nostro ponce. Nel frattempo arriva il conto (con scontrino fiscale, le due volte precedenti no): 20 euro a chiocca.

Bilancio finale:

per un posto rinomato (eh?) per il pesce, ad aver mangiato meglio (calmi, tutto è relativo) è stato colui che ha scelto di mangiare altro. Questo dato di fatto vale più di qualsiasi voto.

I Sublimati non vi metteranno più piede, questo è poco ma sicuro.

Articolo pubblicato su http://www.ubitennis.com il 15 dicembre 2011 e scritto a quattro mani col fido Gianluca Comuniello.

 

Gianluca: Nicola, ci sei? Proviamo anche quest’anno ad individuare le dieci partite dell’anno? Però diciamo subito a scanso di equivoci che non le mettiamo in ordine di importanza o di qualità. Semplicemente ne elenchiamo dieci… sei pronto?
Nicola: Toh, chi si rivede! Il buon Comuniello. Certo che son pronto, anzi prontissimo. Sto scattando sullo sgabello cercando di imitare Nadal prima di un match.

 

FEDERER – DJOKOVIC semifinale Roland Garros 7-6 6-3 3-6 7-6 http://www.youtube.com/watch?v=Yil9PpIr1DA

Gianluca: non vorrei ripetermi e non so neanche se è giusto tentare di razionalizzare le parole che scrissi a caldo, subito dopo il match, ma questa è stata, a mio avviso, semplicemente, la PARTITA. Due giocatori che si giocano molto e che decidono di farlo a viso aperto. La terra battuta non è la loro superficie preferita, ma loro giocano talmente bene che portano la partita nel luogo ideale. E il pubblico va con loro: amore puro per questo sport e i francesi credono che questo sport sia Roger Federer. Punto. Luoghi da cui ho avuto la fortuna di vedere la partita: la tribuna stampa laterale del Philippe Chatrier. La sala stampa. La tribuna stampa dietro ai giocatori, vicinissima agli stessi (grazie Davide Zirone, che mi hai convinto ad andare fin là). In ognuno di questi tre luoghi sentivo espressioni stupefatte, Quel rovescio di Federer giocato con la palla dietro al corpo, ad UNA mano, che continua a non avere senso anche a mesi di distanza. Lo YES! urlato al mondo a fine partita da Roger. La consapevolezza, uscendo dal campo, di poter dire: “Ora chi se ne frega: posso anche non vedere mai più un solo quindici di tennis dal vivo. Meglio di così non si può”.
Nicola: buon per voi che avete goduto e sofferto dal vivo uno dei migliori match (credo di non esagerare) di sempre nella storia del tennis. Tre ore e trentanove minuti col piede pigiato sull’acceleratore, senza mai scalare di una marcia. Un tennis da strapparsi i vestiti e guardarsi la partita nudi per le emozioni e il pathos regalati. E quel punto di rovescio (fai bene a ricordarlo), quel quarto set con Nole che serve per il parziale e Roger che gli fa quattro vincenti in faccia…..aaaahhhh, che pomeriggio.

 

DJOKOVIC – FEDERER semifinale Us Open 6-7 4-6 6-3 6-2 7-5 http://www.youtube.com/watch?v=EXNc_iMkSIY

Gianluca: i tifosi dello svizzero, nel ripensare a questa partita anche negli anni a venire, prendano per favore un disco di Tiziano Ferro. Uno di quelli pre-outing. Prendano quello con “Sere Nere” e urlino insieme a Ferro nel ritornello “Perché fa male, male, male da morire”. Perché è questo quello che ha fatto a Roger e a milioni di suoi tifosi quel dritto in risposta tirato “ad cazzum” dal serbo, chiudendo gli occhi. Nole li aveva già punzecchiati, i tifosi di Roger quando aveva mostrato al mondo che un dritto vincente dello svizzero era figlio di una stecca. Ma con quel dritto senza senso dichiara la guerra e la vince, almeno per quel giorno. Una partita che esce dai normali codici matematici: Federer gioca bene due set e tre quarti, Djokovic due set e un quarto solamente. Ma vince il serbo.
Nicola: su questo match mi ero già espresso su questi lidi, beccandomi anche parecchie critiche. Per due set sembra di rivedere il proseguo della partita di pochi mesi prima a Parigi: il serbo che spinge spinge spinge e spinge e l’altro che tra un’aggiustata al ciuffo e l’altra gli ributta tutto a velocità doppia di contro balzo. Risultato? Due set a zero e match che sembra in ghiaccio. Poi arrivano i voli sulle nuvole, le stecche, gli sfarfallii e di colpo siamo al quinto. Rimarrà agli annali il commento di Ocleppo, che sul 5-3 40-15 Federer afferma che la partita è ormai finita. Non so se altri sostenitori dello svizzero abbiano fatto lo stesso, io ricordo solo che mio padre, seduto accanto a me, si dette una vistosa “toccata” ai gioielli di famiglia. Rivelatasi vana.

 

DJOKOVIC – MURRAY semifinale Foro Italico 6-1 3-6 7-6 http://www.youtube.com/watch?v=VQ37c1m7ByA

Gianluca: per quei pochi o molti di voi che non sono mai stati al Foro Italico, c’è da spiegare che con il calare delle tenebre diventa un posto veramente fetido in cui giocare a tennis. Da Monte Mario scende umidità con la stessa cattiveria degli elicotteri al napalm di Apocalypse Now. Insomma, non ti vien voglia di giocare bene a tennis. E invece Nole e Andy, solo pochi mesi prima protagonisti di una delle più brutte finali degli Australian Open, ci regalano un match da ricordare. Un match in cui Murray torna un giocatore vero, dopo mesi di balbettii. Ma alla fine perde. Guardando i km percorsi a fine partita tutti dicono che Djokovic stavolta non ce la può fare, in finale contro Rafa. Ma questo è Robo-Nole.
Nicola: un match che spiega due cose: come mai Djokovic quest’anno sia stato pressoché imbattibile fino a settembre e come mai Murray sia ancora un mezzo campione. NON PUOI servire per il match dopo avere rimesso in piedi una partita che sembrava persa (prima un set sotto, poi un break di svantaggio nel terzo), andare 30-15 e commettere poi nei punti successivi due pavidi e grondanti braccinismo doppi falli. Semplicemente non puoi. In mezzo c’è una lotta furibonda, feroce, maschia, tra i due migliori rovesci a due mani del circuito, visto che, per una volta, lo scozzese decide di mostrarci che anche lui, da quel lato, sa fare cose egregie e non solo tirare mozzarelle. Ps (notare l’agilità e la gaiezza con la quale Angelino Alfano al minuto 2.10 restituisce la pallina dalla tribuna).

 

DJOKOVIC – NADAL finale Miami 4-6 6-3 7-6  http://www.youtube.com/watch?v=FFlfxOcyALg

Gianluca: allora, arrivati a questa partita la situazione era la seguente: Nole aveva vinto Australian Open, Dubai e Indian Wells rispettivamente su Murray (oltre a Federer in semi), Federer e Nadal. Doveva ancora perdere una partita. Nadal doveva ancora vincere un torneo, ma aveva appena battuto Federer in semifinale in una partita a senso unico. Conterà più il precedente di Indian Wells o l’entusiasmo di Rafa per la schiacciante vittoria su Roger, ci si chiedeva.
Nicola: domanda più che legittima, allora. Anche se qualche mese e sei finali dopo appare quasi una battuta. A Miami Nadal scopre di avere trovato un avversario che fa tutto meglio di lui: col dritto, col rovescio, nella lotta, nella resistenza, con la testa. Tre ore e passa di mazzate, scambi estenuanti, urla, scivolate (nonostante si giochi sul cemento), spaccate. E’ power tennis allo stato puro. Non piace ai puristi. Non piace neanche a Rafa, contro un Nole così.

 

FOGNINI – MONTANES ottavi Roland Garros 4-6 6-4 3-6 6-3 11-9 http://www.youtube.com/watch?v=42S88fch20A

Gianluca: la partita che, insieme al ritorno in A di Davis, ha dato un senso alla stagione dell’italracchetta (sì, ok, finalmente abbiamo anche vinto un torneo con Seppi). E siccome noi italiani le cose, sia nel bene che nel male, riusciamo a farle solo sbracando di brutto ecco che “Fogna” si inventa una partita infinita, condita di tutti i crampi di questo mondo. E da nove, dicasi NOVE, falli di piede nella stretta finale del match. Nonostante questo, non raccontiamo l’ennesima sconfitta all’italiana ma una vittoria che porta Fabio per la prima volta ai quarti di finale. Che non disputerà mai, consunto da questa partita, incorrendo nel furore statistico di Scanagatta.
Nicola: a rivedere il video sembra impossibile che Fognini sia riuscito a vincere questa partita. Senza servizio, con l’incubo del fallo di piede o del doppio fallo, senza una gamba, solo con la testa e col braccio. E che braccio. Da fermo, vincenti a destra e sinistra, pure staffilate di talento, di classe, di quella facilità di gioco mai davvero espressa ma da tutti sempre percepita. Croce e delizia, questo è sempre stato il ligure. Croce e delizia anche in questo epilogo drammatico. Alla gioia per i quarti di finale si contrapporrà infatti poche ore dopo la consapevolezza di non poterseli manco disputare dato l’infortunio. Grazie lo stesso.

 

NADAL – DEL POTRO ottavi Wimbledon 7-6 3-6 7-6 6-4 http://www.youtube.com/watch?v=-o7CgXrspOc

Gianluca: Nicola, ti lascio il dettaglio tecnico-narrativo del match molto volentieri. Perché la cosa che più mi ricordo del match è Nadal che estende il regolamento ai limiti e si prende un Medical Time Out molto propizio prima del tie-break del primo set (stessa spiaggia stesso mare, verrebbe da dire, visto il precedente targato 2010 contro Petzschner).
Nicola: se non sbaglio Picasso voleva anche aspettare Nadal dopo la conferenza stampa per dirgliene (o dargliene?) quattro. Qua l’omone di Tandil invece non si scompone, ma, mentre Nadal deve ancora capire se la sua carriera sia o meno finita nei primi punti del tie break (le smorfie lasciavano presagire ciò), invece di approfittarne e portarsi a casa il set si impappina, si blocca e consente a Lazzaro di rialzarsi, di camminare (pure di correre) e di vincere il parziale probabilmente decisivo. Perché i set successivi saranno equilibratissimi (e altamente spettacolari), ma un conto è giocarseli in vantaggio, un altro è dover rincorrere.

 

TSONGA – FEDERER quarti Wimbledon 3-6 6-7 6-4 6-4 6-4 http://www.youtube.com/watch?v=ZR-vUu27Mbs

Gianluca: la partita che ha fatto dubitare anche a molti Federeriani che fosse veramente finita. In realtà Mr Slam già al lunedì contro Youzhny aveva cazzeggiato oltre il livello di guardia, pur giocando bene. I carri armati francesi partono lenti in questo match e permettono allo svizzero di sgraffignarsi di esperienza i primi due set, ma poi quando si mettono in marcia fanno subire a Roger la prima sconfitta Slam della carriera da un vantaggio di due set a zero. Tsonga diventa semplicemente “Unbreakable”, altro che Bruce Willis…
Nicola: se Jo usa i carri armati Federer al massimo è capace di rispondere a colpi di cerbottana e con l’acume tattico-militare di Sturmtruppen. Già, perché Roggy, una volta incamerati con discreto agio i primi due parziali, decide che la semifinale gliela debba concedere il suo avversario senza che lui debba sforzarsi di prendersela. Con l’aria da dandy annoiato che ogni tanto pervade i suoi match, lo sfizzero pensa più ad aggiustarsi il ciuffo che a combattere. Non un urlo, non una reazione, non un gesto “bellico” mentre l’altro sfonda a colpi di mortaio la sua linea Maginot e conquista la vittoria più bella della sua carriera con pieno merito.

 

TSONGA – PETZSCHNER  primo turno Australian Open 4-6 2-6 6-2 6-3 6-4 http://www.youtube.com/watch?v=FE4QfPj5qyU

Gianluca: gioia, paura e delirio a Melbourne. La partita che fa felice Andrea Scanzi. Te l’ha consigliata lui, Nicola?
Nicola: credo che in realtà il nostro conterraneo toscano avrebbe volentieri patrocinato la causa del match di cui sopra, sempre con Jo, ma con avversario il suo amato Schumacher del tennis (cit.) rimontato e irriso. Qua invece c’è Neuro Pecce (che ha una foto sulla sua pagina Atp che neanche Jack Torrance all’Overlook Hotel) che per due set scherza il francese. Lo devasta col servizio, ne fiacca le possenti gambe col suo back bassissimo, lo attacca all’improvviso. Insomma, per il francese (come dicono a Firenze) “l’è maiala”. Ma Pecce sa anche essere generoso e buono, a dispetto della barba da bruto e della sua allergia al sorriso. E così, tra un frizzo e un lazzo, va a perdere in cinque.

 

MURRAY – TROICKI quarti Roland Garros 4-6 4-6 6-3 6-2 7-5 http://www.youtube.com/watch?v=e5JvslJ9uE8&feature=related

Gianluca: questa la potremmo passare sotto il titolo “Il momento in cui il raccattapalle impazzì”.Povero ragazzo, faceva tenerezza. Anche del gran tennis, prima e dopo, però.
Nicola: Troicki ha quella faccia un po’ così, con quell’espressione un po’ così. Non trasmette molte sensazioni, ha la bocca perennemente aperta, gli occhi spesso sbarrati, una collanina che penzola fuori dalla maglietta. Insomma, sembra un po’ fesso, anche se forse non lo è. In questi due giorni sui quali si sviluppa questo stranissimo match, recita benissimo la parte, però. Va avanti di due set e un break (Murray sembra doversi ritirare, si tocca ovunque, boccheggia, pare reduce da una marcia Perugia-Assisi sotto il sole cocente, tanto mostra di essere provato). Poi si spegne. Puff. In un baleno, prima che il buio avvolga il Lenglen, lo scozzese ha pareggiato il conto. Il giorno dopo si gioca al meglio di un set. E ancora, Viktor (dopo aver smoccolato in serbo per via del raccattapalle che di fatto lo priva di un punto) sale 5-2. Sembra fatta. Sembra. Poi si ricorda chi è. E cede 5 giochi di fila.

 

FERRER – DEL POTRO finale Coppa Davis 6-2 6-7 3-6 6-4 6-3 http://www.youtube.com/watch?v=VeeowXvp7Ps

Gianluca: è difficile, credo, far piangere un omone come Del Potro, ma la sconfitta in questa partita, più che quella contro Nadal, secondo me, lo ha portato a tanto. Il match base della sfida: con Del Potro sopra due set a uno, l’Argentina già assaporava il pareggio nella prima giornata. Ciò avrebbe significato probabilmente il vantaggio dopo il match di doppio (regolarmente vinto in maniera abbastanza agevole). E poi, il terzo giorno, sul vantaggio di due a uno, avrebbero potuto caricare il destino della nazionale sulle spalle caricate a pallettoni di Juan Martin o su quelle artistiche di Nalbandian, che ormai vive per farsi trovar pronto all’appuntamento con il destino tennistico dell’Argentina. La Nalba assaporava questa possibilità. L’Argentina tutta la assaporava. Ma nel quarto set le cose cominciano a mettersi male…
Nicola: già, nel quarto set l’omino gobbo di Valencia è ancora lì che sgambetta e sbuffa, mentre la spia dell’omone di Tandil comincia a lampeggiare. Juan Martin avrebbe anche le chance per chiuderla in quattro, ma le gambe (e forse pure un pizzico di desuetudine a match del genere) non lo assistono più. Nel quinto è ormai vittima designata e la Spagna, come dici tu, più che col punto di Rafa, è qua che capisce davvero di aver vinto la Davis.

Non mi Bugo più

Dopo tre anni dall’ultimo lavoro (“Contatti”) un po’ a sorpresa e senza preavviso alcuno, Cristian Bugatti, in arte Bugo, ad inizio settembre aveva annunciato a tutti, tramite la sua pagina facebook, l’uscita del suo nuovo disco, “Nuovi rimedi per la miopia”.

L’attesa era stata molta, visto che, appunto, per circa due anni il cantante novarese non aveva lasciato trapelare nulla riguardo al quando, al come e al perché di un’ eventuale nuova fatica. Quella stessa attesa, ora che possiam rigiraci tra le mani il cd nuovo di zecca, viene però frustrata e quasi resa vana, visto ciò che le nostre orecchie son costrette a sentire.

Senza girarci troppo intorno: “Nuovi rimedi per la miopia” è un disco molto deludente, sotto parecchi punti di vista. Delle dieci tracce, nessuna spicca in modo particolare tra le altre. La spensieratezza, la freschezza, la lucida e ludica follia che hanno reso celebre Bugo sono solo uno sbiadito ricordo. L’uscita del singolo (“I miei occhi vedono”) aveva già lasciato trapelare qualcosa in questo senso. In realtà, alla fine, uno dei migliori episodi del cd sarà proprio questo.

Il punto è che il Bugatti ha deciso tutto ad un tratto di farsi serio. Pure troppo. E di appiattirsi su soluzioni musicali già esplorate in lungo e in largo da altri artisti italiani. Uno di questi (e non sorprendetevi troppo, perché il nostro ne è un estimatore) è  nientemeno che Vasco Rossi. Sì, proprio lui, mr Nonciclopedia. Almeno un paio di canzoni sembrano fare il verso al rocker di Zocca. In “Non ho tempo” sembra di risentire il Blasco di “Buoni e Cattivi”, mentre nella melensa e sciapita “Comunque io voglio te” manca solo l’immancabile “eeeeeeeeeeeeeeeeeeee” da stadio.

Anche l’elettronica che ha contraddistinto alcune delle più ispirate hit di Bugo, e attraversato praticamente per intero il precedente “Contatti”, è usata in modo più parsimonioso e meno spiazzante. Certo, si intuisce che il lavoro sul suono è stato tanto e pure di ottima fattura, con alcune soluzioni pregevoli (vedi il jingle quasi pubblicitario in “Mattino”), però, ecco, il tutto in contesto di scarsa innovatività e voglia di stupire, cosa che Bugo ha dimostrato di saper fare eccome.

Detto del singolo, alla fine, forse, il pezzo migliore risulta la traccia finale, “Città cadavere”, col suo incedere lento e cadenzato che rimanda a “Notte giovane”, chiusura di “Arriva Golia”. Altre canzoni, (“Il sangue mi fa vento”, “Lamentazione nr 322”), si sviluppano su di un interessante tappeto elettronico (la seconda in particolare ha qualcosa degli ultimi Subsonica), ma presentano testi davvero scialbi, compredenti un (appunto) lamento verso Dio che risulta quasi goffo.

Se Bugo voleva avvicinarsi ad un cantautorato più classico, forse, la strada migliore da seguire era quello del sorprendente (in positivo) “Golia e Melchiorre”, appendice acustica di “Arriva Golia”, dove le doti di chitarrista dell’artista risiedente in India da due anni erano messe in risalto. Forse è stato proprio questo cambio di vita ad influenzare le scelte e le tematiche di quest’album.

Adesso non resta che aspettare il prossimo disco, per capire se “Nuovi rimedi per la miopia”  sia stato soltanto una parentesi oppure l’inizio di qualcosa di diverso. Certo è che, adesso, Bugarsi sarà un po’ meno piacevole.

 

Articolo pubblicato oggi sul sito http://www.ubitennis.com

Se avevate amato, letto con trasporto, passione, curiosità e un po’ di stupore “Open”, la biografia di Andre Agassi, questo libro potrebbe non fare al caso vostro. O meglio, per apprezzarlo dovrete sforzarvi di non pretendere troppo da esso. Di non trovarvi aneddoti succosi, bizzarri e accattivanti pagina dopo pagina. Di non fare scoperte sensazionali (Nadal non ha mai usato un toupet, tanto per dire).

“My Story”, la biografia scritta da Rafael Nadal col giornalista inglese John Carlin, firma di El Pais, è un libro che lascia con un po’ di amaro in bocca l’appassionato verace. Quando ci si avvicina ad un’opera riguardante un campione dello sport, infatti, ciò che solitamente un lettore brama sono episodi mai sentiti, giudizi (meglio se pepati) sugli altri giocatori, opinioni forti, decise, nette. La storia dell’attuale numero 2 del mondo, invece, ha intrapreso decisamente un’altra strada. Quella del politically correct, dei pareri misurati, del non volersi esporre mai troppo. Una strada, volendo usare una parola sola, “buonista”. 

E dire che, perlomeno a livello di impostazione strutturale, il libro adotta una forma curiosa, originale ed efficace allo stesso tempo. Per ogni capitolo descritto con l’io narrante, infatti, ve n’è uno in terza persona, dove le persone più care a Nadal (famiglia, amici, fidanzata, staff), dicono la loro su Rafa per approfondire aspetti che nelle parti in prima persona sono lasciati indietro.
Inoltrel’opera può essere divisa in due parti. Una prima parte (che è anche la più lunga) dove il maiorchino ripercorre passo dopo passo la finale di Wimbledon 2008 all’inizio di ogni capitolo, per poi virare su altri temi e riprendere il film della partita al capitolo successivo, fino al culmine finale (“un’invasione di pura gioia”) della sua fantastica vittoria. La seconda parte, più breve, vede invece diluita in più parti spezzate tra loro la vincente campagna degli Us Open 2010. La differenza di trasporto e carica emotiva nel ricordare le due partite è abbastanza evidente. Se l’epica finale dei Championships è vissuta e descritta in modo quasi maniacale, con interi game ripercorsi punto a punto, con un’enfasi particolare sulle fortissime sensazioni vissute quel pomeriggio infinito, l’atto conclusivo di Flushing Meadows scorre via più liscio, coinvolge meno il lettore, lo porta meno all’interno dell’arena. Le vittorie al Roland Garros, invece, sono appena accennate (salvo la prima nel 2005, comunque trattata in modo piuttosto sbrigativo), quasi come se per Rafa sia stato normale vincere così tante volte quel torneo.

La triade con la quale siamo trasportati nella vita del campione spagnolo è la seguente: lavoro, famiglia, Manacor. Nel libro si susseguono, col rischio (e qualcosa in più) di risultare ripetitivi, esempi relativi all’importanza del lavoro, della fatica, della resistenza mentale, fisica, psicologica; del fondamentale ruolo giocato dalla sua famiglia, sempre con lui, sempre pronta a sostenerlo, aiutarlo; della gioia di ogni ritorno a casa, a Manacor, dove Nadal può finalmente essere se stesso, senza che nessuno gli chieda autografi o lo guardi dal basso verso l’alto. Un ruolo a sé lo recita lo zio Toni, una sorta di Mike Agassi alla meno uno. Severo, austero, quasi cattivo e sadico nei confronti del nipote, tanto da risultare in certi casi indigesto al resto della famiglia, in particolare alla madre di Rafa. Ma, nella descrizione del nipote, fondamentale nella sua crescita mentale, nella sua maturazione come uomo e come atleta. Una, se non la principale, delle chiavi del suo successo, insomma.

Quel che manca alla biografia è una scintilla di fantasia, di originalità. Non si esce mai dal sentiero dell’importanza dell’umiltà, del lavoro che ripaga sul campo, della famiglia come collante (e quando i genitori si separano se ne vedono le conseguenze, infatti), della bellezza di uscire con gli amici d’infanzia appena possibile. Non vi è una vera e propria descrizione della rivalità con Federer. Oltre ad elogi sperticati per il talento di Roger, pare impossibile che non vi sia neanche un aneddoto simpatico da aggiungere alla mera descrizione del gioco dello svizzero, alla forza del suo diritto, allo schema da adottare contro di lui (che è quello che tutti conosciamo, mettere la palla di là, alta, sul rovescio elvetico). Gli altri giocatori, salvo Djokovic, sembrano non esistere. Non una parola, per dire, sulla smutandata di Soderling a Wimbledon 2007, sulla lite con Berdych a Madrid nel 2006, e su altri mille, piccoli, possibili spunti.

Alla fine, ci si deve accontentare di un aereo low-cost preso tra lo stupore degli altri passeggeri e di un soggiorno improvvisato alle tre del mattino nella campagna francese. Un po’ poco, sinceramente.

Meritocrazia all’italiana è darla a un potente di 75 anni affinché ti lanci nel mondo dello spettacolo. E’ ricattare lo stesso potente perché ti riempia di soldi e ti apra le porte degli appalti pubblici. E’ bocciare due (tre?) volte all’esame di maturità e diventare consigliere regionale perché sei figlio di un tipo che gira in canottiera e manda affanculo i giornalisti. E’ pagare le tangenti all’ex uomo di spicco al nord del principale partito di opposizione per vincere delle gare d’appalto. E’ portare un’intercettazione al premier affinché possa rilanciare le sorti della tua ditta sull’orlo del fallimento. E’ fare delle “carezze” innocenti ad un vecchio bavoso della maggioranza per avere successo in tv, divenire famosa e come premio sposare e avere un figlio da mr Billionaire (o mr latitanza, a piacimento). E’ fare l’igienista dentale del primo ministro, essere eletta a consigliera regionale e travestirsi da infermiera porno alle cene eleganti di Hardcore. E’ far sì che il capo della Protezione Civile possa “sconocchiarsi” la schiena con l’ausilio di un preservativo per vincere appalti. E’ far vivere a sua insaputa un ministro in una casa di fronte al Colosseo, sempre per vincere degli appalti. E’ pagare una tangente al commissario dei trasporti del principale partito di opposizione, stavolta per delle rotte aeree. E’ ospitare un mafioso pluriomicida in casa e diventare premier. E’ essere figlio di un professore universitario, il quale era figlio di un professore universitario, per fare anche tu il professore universitario. E’ essere figlio di un avvocato, il quale era figlio di un avvocato, per fare anche tu l’avvocato. E’ essere figlio di un giornalista, il quale era figlio di un giornalista, per fare anche tu il giornalista. E’ essere figlio di un notaio, il quale era figlio di un notaio, per fare anche tu il notaio.

E’ essere italiani e, anche se tutto ciò ti fa schifo, meritarsi tutto questo solo perché sei nato in questa penisola.

Un choker da 16 Slam

Un pezzo di riga. Un centimetro di nastro. Il tennis sa essere crudele come pochi sport al mondo a volte. Lo sa bene Roger Federer, che avrebbe gradito un campo meno largo e una rete meno alta, per una volta. Quante volte potrà pensare, “ah se quella risposta di Djokovic fosse finita poco più in là”, “ah se quel nastro fosse stato meno tirato, appena più basso”. Se tutto ciò si fosse realizzato, lo svizzero sarebbe in finale agli Us Open, avendo battuto in 5 set, in un match prima dominato poi da dominato, il mostro serbo, Novak il nazionalista. E invece no, stessa storia del 2010, la stessa fottutissima storia, caro Roger. Lì ti venne il braccino sui due match point, stavolta hai oggettivamente avuto sfortuna. Ma le analogie sono tremende. Entrambe le volte rimontato. Entrambe le volte con due palle per la finale. Entrambe le volte a mani vuote. Con le pive nel sacco.

Sì, Roger, hai avuto sfortuna, sul 5-3 40-15 hai pure messo due prime di fila. Sul primo quindici l’altro ha tirato ad occhi chiusi, quasi per gioco, così, quasi per farsi due risate, se la tirava sui teloni. Sul 40-30 hai colpito di dritto quel net. La palla poteva cadere in campo, certo. O fuori, come è poi accaduto.

Ma poi? Cosa è successo in quella testa? Perché hai iniziato a giocare sapendo di avere già perso. In fondo il punteggio era ancora dalla tua parte. Stavi ancora servendo, eri ancora a due punti dal match. E invece no. Buio totale. Dissolvenza cerebrale, fisica, psichica. Colpi buttati, risposte pigre, testa bassa, ciondolante, espressione dimessa.

Il punto, caro Rogi, è che chi ti segue con affetto da anni già conosceva il punteggio finale nel momento in cui quel maledetto nastro ti ha negato la vittoria. Già era conscio del 7-5 conclusivo. Aveva già negli occhi i successivi tre game. Immaginava già la mesta stretta di mano e la successiva esultanza con tanto di tre dita del vincitore. Perché, col tempo, sei diventato prevedibile nel tuo essere un grandissimo choker da 16 Slam.

In conferenza stampa hai usato queste illuminanti parole: ‎”it’s awkward having to explain this loss because I feel like I should be doing the other press conference.”

Ti è capitato davvero troppe volte di sentire di dover fare l’altra conferenza stampa.

Affinché mostrasse appieno chi veramente fosse, bisognava che cominciasse a perdere. Con regolarità. Che trovasse (finalmente) una squadra avversaria in grado di sconfiggerlo praticamente sempre. Che in alcuni casi lo umiliasse, deridesse. Che divenisse il suo incubo, il suo spauracchio, il suo drappo rosso.

Quella squadra è il Barcellona. Lui è Josè Mourinho. Provocatore, prima ancora che allenatore, di professione. Un grande comunicatore, dicono alcuni. Di certo un bravissimo motivatore, capace di spremere il massimo e forse qualcosa di più dai suoi calciatori. Di certo, uno che non non accetta la sconfitta. E che, anzi, quando il campo lo vede soccombere, in grado di perdere la testa come pochi altri.

Fino a che ha allenato in Italia, di motivi per “sbroccare” non ne ha avuti troppi (e nonostante ciò è riuscito a crearseli da solo). In fondo la sua Inter vinceva sempre. Eppure, proprio dalla sua esperienza tricolore (nonché dalla precedente campagna inglese al Chelsea) era già trapelata, seppur in fase embrionale rispetto all’esplosione iberica, la sua vera natura. Poco superiore a quella di un attore di bassa lega, in quanto a qualità.

Un osservatore acuto, in realtà, poteva aver emesso la diagnosi già durante la famosa partita delle manette, quell’Inter – Sampdoria del febbraio 2010. Riavvolgendo il nastro e tornando a quei giorni, in effetti, pare di rivivere (in parte) ciò che lo Special One sta sciorinando in Spagna. In quella partita l’Inter soffre l’esuberanza della Sampdoria (con la quale ha perso pure all’andata). Già dai primi minuti si percepisce che non sarà un match qualunque. Quelli in maglia nerazzurra picchiano, sbraitano, hanno la bava alla bocca, non accettano di star lì a subire. Poi, le due espulsioni: prima Samuel (fallo da ultimo uomo), poi Cordoba (doppio giallo). E’ il finimondo. Mourinho mostra le manette a favor di telecamera, da attore consumato di soap opera. L’arbitro Tagliavento è costretto a continue intimidazioni dagli Stankovic di turno (sì, proprio lui, quelle delle tre dita) e si narra che nell’intervallo, al rientro negli spogliatoi, i doriani siano fisicamente minacciati. Il secondo tempo è surreale. La Samp, forte dei due uomini in più, sembra intimorita. L’Inter, invece, praticando un catenaccio efficacissimo, continua a menare (Milito quasi spezza una gamba a Palombo, manco ammonito) e “ottiene” in cambio pure un rosso a Pazzini, pure lui nervosetto. La partita finirà 0-0. Per una settimana non si parlerà d’altro che delle manette di Mourinho.

Bene, torniamo all’oggi. Torniamo al dito infilato nell’occhio al vice di Guardiola. Alle colpe affibbiate all’Unicef. Al campo da calcio trasformato in un ring. Alla continua ricerca della rissa verbale e fisica. Agli interventi killer di (in rigoroso ordine cronologico) Sergio Ramos (il match della “manita”), Pepe (andata semifinale di Champions), Marcelo (l’altra sera). Allo storpiare i nomi come un Emilio Fede d’annata.

Dopo avere battuto Guardiola con la sua Inter grazie a indicibili favori arbitrali e ad un non-calcio nel 2010 in Champions, Mourinho pensava di ripetersi con le “merengues”. Dapprima, da sbruffone di prima categoria qual è, ci ha pure provato giocando a pallone (concetto da lui spesso lontano). E’ tornato a Madrid con cinque pappine (e un anno di MERITATISSIMI sfottò) sul groppone. Poi, capita l’antifona, ha deciso di giocarsela da par suo. Buttandola in caciara, in rissa, sin dalle press conferences. Non gli è andata molto meglio. Delle innumerevoli sfide successive, ha portato a casa soltanto la Coppa del Re 2011. Poi solo sberle, date dai suoi ai blaugrana. Fino a mercoledì sera. E dire che il Real aveva pure giocato bene, si era meritato il 2-2, non sembrava nemmeno una squadra di Mourinho. Messi è calato dal cielo a due minuti dal termine. E tutto è tornato come prima. Il dito nell’occhio però non ce lo aveva ancora regalato.

In Italia c’è chi lo ammira incodizionatamente. In Italia, appunto.

Era il febbraio 2002, piazza Navona, quando Nanni Moretti pronunciò la fatidica giaculatoria contro gli allora (mica tanto allora, salvo Rutelli son sempre tutti lì) dirigenti dell’Ulivo. Sono passati 9 anni e spiccioli. C’è stata una (non) vittoria alle politiche del 2006 e qualche successo (pure significativo) a livello amministrativo (a memoria: nel 2005 e pochi mesi fa). Il berlusconismo sta morendo, dicono, scrivono e sostengono in molti. Sarà anche vero, ma finché nel centrosinistra continueranno ad esistere “casi Penati”, “casi Pronzato” e una cecità politica degna delle peggiori talpe (basti pensare al recente voto sull’abolizione delle province: come tirarsi una mattonata sugli zebedei, altro che Tafazzi), le parole di Moretti continueranno a ronzare, ronzare e ronzare nelle nostre (e, si spera, anche nelle loro di dirigenti) teste. E dite qualcosa di sinistra!

Un leggero profumo di salmastro pervade piazza Bovio prima dell’ingresso in scena di Manuel Agnelli e soci. La serata è leggermente ventilata e il pericolo pioggia, paventato da alcune previsioni del tempo, è per fortuna scampato. Il cielo è difatti terso, brillano le stelle e sullo sfondo si vedono le luci dell’isola d’Elba. Man mano che calano le tenebre, la splendida piazza che si affaccia sul mare (è una sorta di terrazza) si va riempiendo. Gli Afterhours sono attesi per le 21.30, ma, come ogni concerto che si rispetti, si fanno attendere. Per riscaldare l’atmosfera le casse passano un po’ di musica “buona”, tra cui Johnny Cash impegnato in una cover di Nick Cave (di “Mercy seat”, per la precisione).

Poi il vento di colpo pare calmarsi, il salmastro sparire e anche l’onda che si infrange sugli scogli sottostanti col caratteristico “splash” ha un sussulto. Il concerto può iniziare. E subito si fa sul serio. La scaletta scelta per questo Summer Tour 2011, libera da vincoli discografici (nel senso che non ci sono album nuovi da presentare/promuovere), pesca a piene mani nel passato, è ruvida, elettrica, potente, corrosiva. Anche l’abbigliamento, dopo alcuni anni di camicie, uniformi, giacche, cravatte e barocchismi vari, è rock: il leader della band indossa infatti una t-shirt (con tanto di manica tagliata su un lato) con la scritta “God is sound”. La prima canzone, una tiratissima “La verità che ricordavo”, ne è la testimonianza. Il pubblico presente pare apprezzare questa sorta di ritorno alle origini (anche se dal vivo Agnelli & c. hanno sempre mantenuto intatta la loro anima “dura”). Il concerto scorre come percorso da una perenne scarica di adrenalina. Si sentono pezzi come “Germi”, “Siete proprio dei pulcini”, alternati alle power-ballads che hanno reso famoso il gruppo. E’ coro generale per “Quello che non c’è”, “Bye bye Bombay” (col classico e urlatissimo “Io non tremo!), “Pelle”. L’acustica è ottima, la voce di Manuel è in piena forma e il gruppo, del quale fa di nuovo parte Xabier Irondo, lo supporta al meglio. Unico punto debole della serata, almeno per quanto riguarda chi scrive, sono i due pezzi (solo due, sarà un caso?) tratti dall’ultimo album in studio, “I milanesi ammazzano il sabato”, disco che fece storcere un po’ il naso alla critica. “E’ solo febbre” e “Pochi istanti nella lavatrice” sono comunque soltanto due brevi episodi in mezzo ad un grande spettacolo. A scaldare il cuore ci pensano le parole di “Ci sono molti modi”, (che il sottoscritto si aspettava suonata al piano in versione acustica. C’è da dire che  anche l’esecuzione “tradizionale” è risultata ottima), “Voglio una pelle splendida”, la potenza poetica di “Male di miele”.

Il finale è degno di nota e va ad impreziosire una serata già di per sé significativa. Vi troviamo una cattivissima “Non si esce vivi dagli anni ‘80”, seguita da un simpatico siparietto prima di “Bianca” (solo chitarra e violino), con Agnelli che attacca le note de “La canzone del sole” di Battisti per poi, a canzone conclusa affermare “E’ meglio la mia però!”.

La chiusura, infine, è per “Il paese è reale”. E uno si chiede: ma questi qua a Sanremo che c’azzecavano?

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