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Articolo pubblicato oggi sul sito http://www.ubitennis.com

Se avevate amato, letto con trasporto, passione, curiosità e un po’ di stupore “Open”, la biografia di Andre Agassi, questo libro potrebbe non fare al caso vostro. O meglio, per apprezzarlo dovrete sforzarvi di non pretendere troppo da esso. Di non trovarvi aneddoti succosi, bizzarri e accattivanti pagina dopo pagina. Di non fare scoperte sensazionali (Nadal non ha mai usato un toupet, tanto per dire).

“My Story”, la biografia scritta da Rafael Nadal col giornalista inglese John Carlin, firma di El Pais, è un libro che lascia con un po’ di amaro in bocca l’appassionato verace. Quando ci si avvicina ad un’opera riguardante un campione dello sport, infatti, ciò che solitamente un lettore brama sono episodi mai sentiti, giudizi (meglio se pepati) sugli altri giocatori, opinioni forti, decise, nette. La storia dell’attuale numero 2 del mondo, invece, ha intrapreso decisamente un’altra strada. Quella del politically correct, dei pareri misurati, del non volersi esporre mai troppo. Una strada, volendo usare una parola sola, “buonista”. 

E dire che, perlomeno a livello di impostazione strutturale, il libro adotta una forma curiosa, originale ed efficace allo stesso tempo. Per ogni capitolo descritto con l’io narrante, infatti, ve n’è uno in terza persona, dove le persone più care a Nadal (famiglia, amici, fidanzata, staff), dicono la loro su Rafa per approfondire aspetti che nelle parti in prima persona sono lasciati indietro.
Inoltrel’opera può essere divisa in due parti. Una prima parte (che è anche la più lunga) dove il maiorchino ripercorre passo dopo passo la finale di Wimbledon 2008 all’inizio di ogni capitolo, per poi virare su altri temi e riprendere il film della partita al capitolo successivo, fino al culmine finale (“un’invasione di pura gioia”) della sua fantastica vittoria. La seconda parte, più breve, vede invece diluita in più parti spezzate tra loro la vincente campagna degli Us Open 2010. La differenza di trasporto e carica emotiva nel ricordare le due partite è abbastanza evidente. Se l’epica finale dei Championships è vissuta e descritta in modo quasi maniacale, con interi game ripercorsi punto a punto, con un’enfasi particolare sulle fortissime sensazioni vissute quel pomeriggio infinito, l’atto conclusivo di Flushing Meadows scorre via più liscio, coinvolge meno il lettore, lo porta meno all’interno dell’arena. Le vittorie al Roland Garros, invece, sono appena accennate (salvo la prima nel 2005, comunque trattata in modo piuttosto sbrigativo), quasi come se per Rafa sia stato normale vincere così tante volte quel torneo.

La triade con la quale siamo trasportati nella vita del campione spagnolo è la seguente: lavoro, famiglia, Manacor. Nel libro si susseguono, col rischio (e qualcosa in più) di risultare ripetitivi, esempi relativi all’importanza del lavoro, della fatica, della resistenza mentale, fisica, psicologica; del fondamentale ruolo giocato dalla sua famiglia, sempre con lui, sempre pronta a sostenerlo, aiutarlo; della gioia di ogni ritorno a casa, a Manacor, dove Nadal può finalmente essere se stesso, senza che nessuno gli chieda autografi o lo guardi dal basso verso l’alto. Un ruolo a sé lo recita lo zio Toni, una sorta di Mike Agassi alla meno uno. Severo, austero, quasi cattivo e sadico nei confronti del nipote, tanto da risultare in certi casi indigesto al resto della famiglia, in particolare alla madre di Rafa. Ma, nella descrizione del nipote, fondamentale nella sua crescita mentale, nella sua maturazione come uomo e come atleta. Una, se non la principale, delle chiavi del suo successo, insomma.

Quel che manca alla biografia è una scintilla di fantasia, di originalità. Non si esce mai dal sentiero dell’importanza dell’umiltà, del lavoro che ripaga sul campo, della famiglia come collante (e quando i genitori si separano se ne vedono le conseguenze, infatti), della bellezza di uscire con gli amici d’infanzia appena possibile. Non vi è una vera e propria descrizione della rivalità con Federer. Oltre ad elogi sperticati per il talento di Roger, pare impossibile che non vi sia neanche un aneddoto simpatico da aggiungere alla mera descrizione del gioco dello svizzero, alla forza del suo diritto, allo schema da adottare contro di lui (che è quello che tutti conosciamo, mettere la palla di là, alta, sul rovescio elvetico). Gli altri giocatori, salvo Djokovic, sembrano non esistere. Non una parola, per dire, sulla smutandata di Soderling a Wimbledon 2007, sulla lite con Berdych a Madrid nel 2006, e su altri mille, piccoli, possibili spunti.

Alla fine, ci si deve accontentare di un aereo low-cost preso tra lo stupore degli altri passeggeri e di un soggiorno improvvisato alle tre del mattino nella campagna francese. Un po’ poco, sinceramente.

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