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Affinché mostrasse appieno chi veramente fosse, bisognava che cominciasse a perdere. Con regolarità. Che trovasse (finalmente) una squadra avversaria in grado di sconfiggerlo praticamente sempre. Che in alcuni casi lo umiliasse, deridesse. Che divenisse il suo incubo, il suo spauracchio, il suo drappo rosso.

Quella squadra è il Barcellona. Lui è Josè Mourinho. Provocatore, prima ancora che allenatore, di professione. Un grande comunicatore, dicono alcuni. Di certo un bravissimo motivatore, capace di spremere il massimo e forse qualcosa di più dai suoi calciatori. Di certo, uno che non non accetta la sconfitta. E che, anzi, quando il campo lo vede soccombere, in grado di perdere la testa come pochi altri.

Fino a che ha allenato in Italia, di motivi per “sbroccare” non ne ha avuti troppi (e nonostante ciò è riuscito a crearseli da solo). In fondo la sua Inter vinceva sempre. Eppure, proprio dalla sua esperienza tricolore (nonché dalla precedente campagna inglese al Chelsea) era già trapelata, seppur in fase embrionale rispetto all’esplosione iberica, la sua vera natura. Poco superiore a quella di un attore di bassa lega, in quanto a qualità.

Un osservatore acuto, in realtà, poteva aver emesso la diagnosi già durante la famosa partita delle manette, quell’Inter – Sampdoria del febbraio 2010. Riavvolgendo il nastro e tornando a quei giorni, in effetti, pare di rivivere (in parte) ciò che lo Special One sta sciorinando in Spagna. In quella partita l’Inter soffre l’esuberanza della Sampdoria (con la quale ha perso pure all’andata). Già dai primi minuti si percepisce che non sarà un match qualunque. Quelli in maglia nerazzurra picchiano, sbraitano, hanno la bava alla bocca, non accettano di star lì a subire. Poi, le due espulsioni: prima Samuel (fallo da ultimo uomo), poi Cordoba (doppio giallo). E’ il finimondo. Mourinho mostra le manette a favor di telecamera, da attore consumato di soap opera. L’arbitro Tagliavento è costretto a continue intimidazioni dagli Stankovic di turno (sì, proprio lui, quelle delle tre dita) e si narra che nell’intervallo, al rientro negli spogliatoi, i doriani siano fisicamente minacciati. Il secondo tempo è surreale. La Samp, forte dei due uomini in più, sembra intimorita. L’Inter, invece, praticando un catenaccio efficacissimo, continua a menare (Milito quasi spezza una gamba a Palombo, manco ammonito) e “ottiene” in cambio pure un rosso a Pazzini, pure lui nervosetto. La partita finirà 0-0. Per una settimana non si parlerà d’altro che delle manette di Mourinho.

Bene, torniamo all’oggi. Torniamo al dito infilato nell’occhio al vice di Guardiola. Alle colpe affibbiate all’Unicef. Al campo da calcio trasformato in un ring. Alla continua ricerca della rissa verbale e fisica. Agli interventi killer di (in rigoroso ordine cronologico) Sergio Ramos (il match della “manita”), Pepe (andata semifinale di Champions), Marcelo (l’altra sera). Allo storpiare i nomi come un Emilio Fede d’annata.

Dopo avere battuto Guardiola con la sua Inter grazie a indicibili favori arbitrali e ad un non-calcio nel 2010 in Champions, Mourinho pensava di ripetersi con le “merengues”. Dapprima, da sbruffone di prima categoria qual è, ci ha pure provato giocando a pallone (concetto da lui spesso lontano). E’ tornato a Madrid con cinque pappine (e un anno di MERITATISSIMI sfottò) sul groppone. Poi, capita l’antifona, ha deciso di giocarsela da par suo. Buttandola in caciara, in rissa, sin dalle press conferences. Non gli è andata molto meglio. Delle innumerevoli sfide successive, ha portato a casa soltanto la Coppa del Re 2011. Poi solo sberle, date dai suoi ai blaugrana. Fino a mercoledì sera. E dire che il Real aveva pure giocato bene, si era meritato il 2-2, non sembrava nemmeno una squadra di Mourinho. Messi è calato dal cielo a due minuti dal termine. E tutto è tornato come prima. Il dito nell’occhio però non ce lo aveva ancora regalato.

In Italia c’è chi lo ammira incodizionatamente. In Italia, appunto.

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